Le innovazioni apportate dalle stesse hanno indotto in più occasioni i Giudici di merito, che si sono trovati ad attuarle, a rimettere alla Consulta questioni attinenti alla legittimità costituzionale delle norme introdotte dalle citate riforme (sul medesimo punto si veda: Una nuova riforma del lavoro ad opera delle giurisdizioni superiori?).
L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come novellato dalla Legge 92/2012, è stato oggetto di due distinte pronunce della Corte Costituzionale, le nn. 59/2021 e 125/2022, le quali hanno rispettivamente statuito che:
• il giudice, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso per g.m.o., ha l’obbligo e non la facoltà applicare la tutela reintegratoria (si veda: Corte Costituzionale: reintegra obbligatoria se il fatto posto alla base del licenziamento per g.m.o. è insussistente);
• ai fini della concessione della reintegra, non è necessario che l’insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per g.m.o risulti manifesta (si veda: Corte Costituzionale: incostituzionale la richiesta della manifesta insussistenza del fatto per la reintegra del lavoratore).
Peggior sorte ha avuto, invece, la riforma attuata con il c.d. Jobs Act, con cui si è superato il sistema di tutele previste dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
La Consulta è stata più volte chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale del D.Lgs. 23/2015 e lo ha fatto con esiti alterni.
In particolare:
• la “storica” sentenza 194/2018 ha affermato che il risarcimento previsto in caso di illegittimità del recesso non può essere proporzionato alla sola anzianità di servizio, ma deve tenere in considerazione anche altri elementi, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti (si veda: Corte Costituzionale: incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento basato solo sull’anzianità di servizio);
• la sentenza 150/2020 (poi integralmente ripresa dalla successiva pronuncia 93/2021) ha affermato un identico principio anche con riferimento ai licenziamenti viziati da vizi formali e procedurali (si veda: Corte Costituzionale: è incostituzionale la norma che prevede che l’indennità per i licenziamenti con vizi formali si basi solo sull’anzianità di servizio e Corte Costituzionale: incostituzionale l’indennità parametrata solo sull’anzianità di servizio in caso di licenziamenti viziati formalmente);
• la sentenza 254/2020 ha dichiarato inammissibile la sollevata questione di legittimità costituzionale della previsione di un regime sanzionatorio diverso, in caso di violazione dei criteri di scelta nell’ambito di un medesimo licenziamento collettivo, tra assunti prima e dopo il marzo 2015 (si veda: Corte Costituzionale: inammissibili le questioni sul regime sanzionatorio previsto dal Jobs Act per i licenziamenti collettivi). Principio rafforzato dalla pronuncia 7/2024 che ha dichiarato non fondate le questioni inerenti alla disciplina dei licenziamenti collettivi prevista dal Jobs Act (si veda: Corte Costituzionale: non è illegittima la disciplina dei licenziamenti collettivi prevista dal Jobs Act);
• la sentenza 183/2022, pur dichiarando inammissibili le censure avanzate sull’indennità prevista per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, ha evidenziato che la relativa norma inserita nel Jobs Act non rappresenta un rimedio congruo e coerente con i requisiti di adeguatezza e dissuasività (si veda: Corte Costituzionale: necessario un intervento legislativo che preveda tutele adeguate in caso di licenziamenti);
• la sentenza 22/2024, da ultimo, ha statuito l’illegittimità costituzione del Jobs Act nella parte in cui limita la reintegra solo ai casi di nullità espressamente previsti dalla legge (si veda: Corte Costituzionale: il licenziamento nullo porta sempre alla reintegra).
In quest’ultima pronuncia, la Consulta evidenzia una non aderenza del dettato normativo rispetto alla legge delega che affermava espressamente “… limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori”.
Secondo la recente sentenza, infatti, la legge delega non intendeva porre alcun distinguo tra nullità espresse e non espresse o, per meglio dire, tra nullità testuali e nullità virtuali.
La giurisprudenza (ex plurimis, Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 15 marzo 2022, n. 8472) e la dottrina, inseriscono nella prima categoria tutte le ipotesi in cui è prevista espressamente la sanzione della nullità quale conseguenza della violazione di una norma imperativa, mentre riconducono alla seconda categoria le ipotesi in cui la nullità, pur in mancanza di una espressa previsione, deriva comunque dalla contrarietà a norme imperative ai sensi del primo comma dell’art. 1418 c.c., laddove afferma “salvo che la legge disponga diversamente”.
In altre parole, nei casi di nullità virtuali è richiesto all’interprete di accertare se il legislatore, con la prescrizione di norme imperative, abbia anche inteso far discendere, dalla contrarietà ad esse, la nullità.
Applicando detti principi alla materia dei licenziamenti, se ne ricava che le nullità espressamente previste dalla legge che, a mente del testo originario dell’art. 2 del D.Lgs. 23/2015, danno diritto alla reintegra sono quelle riguardanti:
• il licenziamento discriminatorio;
• il licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio;
• il licenziamento irrogato in violazione delle norme poste a tutela della genitorialità;
• il licenziamento per motivo illecito determinante, ai sensi dell’art. 1345 c.c.;
• il licenziamento inefficace intimato in forma orale.
Prima della pronuncia n. 22/2024 della Corte Costituzionale ed a fronte della censurata formulazione della norma, erano rimaste, invece, prive di regime sanzionatorio le fattispecie di licenziamenti affetti da nullità virtuali, quali:
• il licenziamento per prolungata assenza per malattia o infortunio prima del superamento del periodo di comporto;
• il licenziamento ritorsivo del dipendente whistleblower, che segnala illeciti commessi dal datore di lavoro;
• il licenziamento intimato in violazione del “blocco” dei licenziamenti economici durante il periodo emergenziale per la pandemia da COVID-19;
• il licenziamento intimato in contrasto con le norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali;
• il licenziamento irrogato in violazione del diritto alla conservazione del posto per i soggetti tossicodipendenti.
La conseguenza di quest’ultima decisione è evidente: vi è un ampliamento dell’ambito applicativo del rimedio reintegratorio.