La sentenza con cui il Tribunale di Busto Arsizio ha condannato l’azienda di moda Betty Blue amministrata da Elisabetta Franchi per il contenuto discriminatorio di alcune dichiarazione sul lavoro femminile è uno snodo importante, a livello giuridico, sul tema delle discriminazioni di genere.
La sentenza, infatti, non condanna la società per una condotta materiale della manager, ma si concentra su un aspetto differente: le dichiarazioni con cui l’amministratrice aveva sostenuto di «puntare» per le posizioni importanti dell’azienda su uomini oppure su donne di età sopra i 40 anni.
Queste dipendenti sarebbero state preferibili in quanto, avendo superato diversi «giri di boa» (eventuali figli, matrimoni e separazioni), avrebbero lavorato con maggiore tranquillità e dedizione.
Queste dichiarazioni sono state parzialmente corrette, in un secondo momento, ma le precisazioni fornite dall’interessata non sono bastate per evitare la condanna da parte del Tribunale.
Una decisione – presa nell’ambito della procedura speciale prevista per la repressione delle discriminazioni regolata dall’articolo 28 della legge 150/2011 – che mostra in maniera concreta gli spazi ampi che oggi copre la tutela antidiscriminatoria, sotto diversi punti di vista (mancano ancora le motivazioni, ma dalla decisione si può scorgere il radicamento del Giudice).
Il primo riguarda le condotte sanzionabili: il Tribunale riconosce una condotta discriminatoria non tanto per specifiche azioni materiali ma per delle dichiarazioni, senza chiedersi se quelle dell’imprenditrice fossero delle semplici iperboli, magari eccessive, o si fossero tradotte in concrete discriminazioni sul lavoro.
È stato accolto, in questo modo, il ragionamento dei legali della ricorrente, che hanno qualificato tali dichiarazioni come una forma di discriminazione “indiretta”, che avrebbe avuto l’effetto di «dissuadere le lavoratrici dall’accedere o presentare candidature per le posizioni di vertice» della società (così si legge nel ricorso introduttivo).
Il secondo aspetto da segnalare riguarda la tipologia di sanzioni: nello spirito della normativa antidiscriminatoria, che non tipizza in modo rigido e vincolante i rimedi contro le violazioni, il Tribunale applica una combinazione di condanne.
Viene approntato un rimedio di tipo economico, calcolato in via equitativa (5mila euro in favore della ricorrente), cui si aggiunge una sanzione di tipo reputazionale (pubblicare la sentenza su un quotidiano nazionale) e, infine, un obbligo molto particolare: adottare e realizzare un piano di formazione in azienda.
Piano che dovrà essere erogato a tutto il personale e dovrà avere uno scopo specifico: promuovere l’abbandono dei pregiudizi legati a età, genere e carichi familiari nella selezione del personale dirigenziale.
Da rimarcare, infine, la natura particolare del soggetto legittimato ad agire: come prevede la normativa sulle discriminazioni, la ricorrente è un ente esponenziale di interessi diffusi, l’associazione nazionale per la lotta alle discriminazioni.
Questa sentenza, quale che siano gli sviluppi futuri di questo contenzioso (non è da escludere che la decisione sia impugnata), deve essere letta come un monito: le aziende devono dotarsi di meccanismi particolarmente sofisticati in materia di discriminazioni (di qualsiasi tipo), preoccupandosi di gestire in maniera coordinata la comunicazione, le politiche del personale, i social media e ogni altro aspetto direttamente e indirettamente riferito alle posizioni dell’azienda sul tema.
Meccanismi che dovrebbero intervenire anche dopo eventuali incidenti nella gestione di un argomento così complesso: leggendo in controluce il ricorso introduttivo e i provvedimenti del Giudice, si può desumere che una condotta riparatrice più efficace della semplice rettifica delle dichiarazioni avrebbe, probabilmente, comportato una sanzione più mite.